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Opinioni

The Last Guardian, la bellezza imperfetta dell’arte giapponese

Da 10 anni il mondo non vede un gioco di Fumito Ueda, la mente dietro ad ICO e Shadow of the Colossus. Che ora torna con un’altra fiaba senza tempo: The Last Guardian. Un gioco bello e imperfetto, come l’arte giapponese.
A cura di Marco Paretti
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Wabi-Sabi. La "bellezza imperfetta, impermanente e incompleta", una visione derivata dalla dottrina buddhista dell'anitya che rappresenta gli elementi chiave di ciò che consideriamo l'estetica dell'arte giapponese, la bellezza orientale che si contrappone ai valori estetici imposti dai canoni greci. "Se un oggetto o un'espressione può provocare dentro noi stessi una sensazione di serena malinconia e un ardore spirituale, allora si può dire che quell'oggetto è wabi-sabi". Non c'è termine migliore per descrivere The Last Guardian, ultimo lavoro di Fumito Ueda. Una bellezza imperfetta, non solo perché il mondo che esplora sembra essere ormai una carcassa di un antico splendore né perché uno dei protagonisti sembra dover ancora fiorire, colto nella fase di transizione da cucciolo ad adulto. È wabi-sabi anche perché imperfetta è l'opera in sé, elemento che però paradossalmente non ne scalfisce la bellezza.

Sono pochi gli sviluppatori di videogiochi che possono dire di aver avuto un impatto così grande sull'industria con così pochi titoli. Uno di questi è sicuramente Ueda, che all'alba degli anni 2000 ha regalato al mondo due perle d'autore: ICO e Shadow of the Colossus. Due titoli che hanno il pregio di aver rappresentato uno dei primi esempi più lampanti di come i videogiochi possano diventare arte, proponendo pochi elementi curati, un accenno di storia e tanto mistero. Ma offrendo un'esperienza – questo il termine più corretto per descriverli – che va oltre la maggior parte dei videogiochi prodotti negli anni '90. Quest'anno Ueda ci riprova con The Last Guardian, un'opera dalla gestazione a dir poco turbolenta, ma che propone tutti gli elementi cari ad una delle menti più brillanti del settore.

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È dal 2005 che Ueda non ci regala un'opera. D'altronde The Last Guardian, annunciato nel 2009 ma in sviluppo dal 2007, ha subito una serie di rinvii e persino semi-cancellazioni che fino all'ultimo ne hanno messo a rischio la pubblicazione. Alla fine, però, The Last Guardian è arrivato e lo ha fatto in un momento ancora più propizio per le avventure che puntano al suscitare emozioni. È forse questo che ha convinto Sony a riesumare il progetto, forte del successo dei titoli spesso indipendenti che guidano gli utenti attraverso storie e ambientazioni meno "ludiche" rispetto a quanto succede normalmente. Un approccio che solo apparentemente può sembrare un allontanamento dai valori chiave dei videogiochi, ma che invece giova di una capacità narrativa che solo questo medium può offrire.

In The Last Guardian – così come in ICO e Shadow of the Colossus – Ueda ha in realtà trovato un giusto equilibrio tra le due cose: da un lato il gioco chiede di risolvere enigmi ambientali, scalare, saltare e cercare di comprendere il mondo che ci circonda, dall'altro lo fa chiedendo di prendere il viaggio con calma, di osservare ciò che circonda i due protagonisti e di soffermarsi sulle bellezze del mondo. Ad aiutare in questo compito è anche l'elemento chiave del gioco: il rapporto tra il protagonista, un ragazzo senza nome, e Trico, una sorta di enorme grifone che instaura fin dai primi momenti di gioco un legame con il giovane misterioso. Entrambi colti in un momento di transizione, di crescita. Due personaggi imperfetti, incompleti.

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È qui che The Last Guardian spicca, riuscendo non solo a mostrare il rapporto tra due sconosciuti appartenenti a due mondi così differenti tra loro, ma creando un legame tra lo stesso giocatore e Trico. Ueda in questo è un maestro: fin dai primi momenti, quando ci troviamo a dover curare un diffidente Trico colpito da alcune lance, il gioco ci porta a creare una forte empatia con la creatura, che man mano nel gioco si fiderà sempre più del misterioso protagonista, aiutandolo ad esplorare le ambientazioni e a proseguire nel cammino. Un legame psicologico che funziona anche in virtù dell'ottima caratterizzazione di Trico, dei suoi movimenti all'interno degli ambienti e del suo incessante esplorare. Ma anche, intelligentemente, in virtù della necessità di accarezzarlo per calmarlo: un'azione semplice, ma che crea un legame. Ad un certo punto si comincia inconsciamente a percepire i pericoli del mondo semplicemente osservando Trico, il suo annusare e i suoi comportamenti.

Il tutto, ovviamente, viene presentato in maniera assolutamente discreta, senza indicatori o altro. Anzi, lo schermo è totalmente riservato al gioco; nessuna distrazione dovuta a grafiche o elementi a schermo, gli unici protagonisti sono il ragazzo, Trico e i misteriosi nemici che proveranno a fermare l'avanzata del duo. È uno degli elementi che il gioco prende in prestito da ICO, oltre al dualismo dei protagonisti e al continuo tentativo di rapimento da parte dei nemici, che questa volta prendono di mira il ragazzo e non l'accompagnatore. L'eredità di Shadow of the Colossus è invece costituita proprio da Trico, che sebbene non offra le dimensioni dei colossi di Ueda, consente al protagonista di scalarne le comunque enormi dimensioni per raggiugnere punti sopraelevati e saltare burroni altrimenti impossibili da superare.

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In questo il progetto di Ueda funziona perfettamente, creando un equilibrio tra le due parti che dà vita ad un'esperienza appagante ed emozionante. Il problema è che purtroppo il gioco soffre del processo travagliato che lo ha visto nascere su PlayStation 3 a approdare su PlayStation 4. Un passaggio che ha sì portato ad un miglioramento dell'aspetto visivo, ma ha anche introdotto evidenti problematiche tecniche che, sebbene nell'economia generale del gioco non riescano a rovinare l'esperienza, si fanno notare, soprattutto dal punto di vista del frame rate. Così, se da un lato ci si stupisce dei movimenti degli alberi, delle piume di Trico e degli abiti del misterioso ragazzo, dall'altro si viene distratti da continui rallentamenti che scalfiscono la resa visiva del tutto. Infine, nei movimenti del protagonista e della telecamere The Last Guardian rivela una nascita che risale ad oltre dieci anni fa: sono elementi che ormai fanno parte della cifra stilistica di Ueda, ma che se accostati ai problemi tecnici possono provocare alcuni momenti di frustrazione. Un peccato, perché viste le potenzialità della console e l'indiscussa abilità di Ueda di realizzare mondi semplici ma profondi, The Last Guardian poteva rivelarsi un'esperienza ancora più completa. Eppure questa sorta di imperfezione rende il gioco una bellezza a sé stante, un wabi-sabi videoludico che ben si accosta all'arte giapponese dalla quale il gioco va inevitabilmente ad attingere. Una bellezza imperfetta che arranca come il suo protagonista, che cade per poi rialzarsi, forte tanto nella narrazione quanto nel rapporto silenzioso tra due sconosciuti. In questo Ueda è ormai un maestro.

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Giornalista dal 2002 specializzato in nuove tecnologie, intrattenimento digitale e social media, con esperienze nella cronaca, nella produzione cinematografica e nella conduzione radiofonica. Caposervizio Innovazione di Fanpage.it.
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