Il fatto di essere sorpresi che Shinzō Abe, il primo ministro giapponese, abbia scelto Super Mario come suo alter ego durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Rio è già di per sé sintomo della considerazione che abbiamo, anche tra i più inseriti nel settore, nei confronti dei videogiochi. Un approccio che, proprio guardando il trailer con cui il Giappone ha presentato le sue prossime Olimpiadi, si scontra con la contrapposta sicurezza di un paese che ha già capito tutto. Cioè che i videogiochi, così come gli anime, non sono solo roba da bambini, ma un prodotto culturale in grado di spingere l'identità di una nazione ben oltre i confini territoriali.
D'altronde chiunque, all'interno del bel filmato lanciato ieri, ha riconosciuto la propria infanzia: da Oliver Hutton e le sue bombardate di rovesciata al gatto-robot Doraemon, fino ad arrivare al protagonista assoluto della presentazione, proprio quel Super Mario che, una volta preso il posto di Abe, attraversa il mondo e, dal leggendario incrocio di Shibuya, sbuca all'interno del Maracanã di Rio de Janeiro. È la celebrazione ultima di un medium che in Giappone ha attraversato decenni di splendore e che viene tuttora considerato come uno dei prodotti più importanti del paese, nonostante negli ultimi anni l'industria videoludica giapponese si sia ritrovata ad inseguire quella di altri paesi.
Eppure di alternative il Giappone ne aveva molte. Basti pensare alla sua storia e alla forte (e talvolta rigida) cultura che ha caratterizzato il paese per migliaia di anni. Nel video potevano finirci il Giappone feudale, le Geishe, la cerimonia del tè o il cibo, tutti elementi che chiunque potrebbe istantaneamente associare al paese e viceversa. Potevano finirci le innovazioni tecnologiche, i dispositivi, il treno proiettile (che infatti c'è, ma sullo sfondo). Eppure nel video vediamo Pac-Man, Hello Kitty e Oliver Hutton accompagnare alla pari atleti, architetture e visuali squisitamente giapponesi – anche qui, però, nell'accezione tipicamente legata all'animazione asiatica – in una staffetta che dà ufficialmente il via al "Warm up" per Tokyo 2020.
Persino la scelta musicale sembra ricordare le colonne sonore delle opere multimediali giapponesi, dai classici suoni videoludici a melodie molto vicine alle sonorità di Yoko Kanno, leggenda della composizione di brani per l'animazione giapponese. Il risultato è entusiasmante perché unisce la rigorosa tradizione del paese con gli elementi più recenti che ne hanno reso famose le opere in tutto il mondo. Ma, soprattutto, perché mette sullo stesso piano i videogiochi e l'animazione con la cultura di un paese che da questi medium tanto bistrattati ne tira fuori addirittura un'identità da sbandierare con orgoglio durante un evento internazionale come le Olimpiadi. Restare stupiti se un primo ministro sceglie di indossare i panni di Super Mario è lecito, ma la verità è che il Giappone ha capito benissimo che la sua identità è talmente legata ai videogiochi da poter affidare tranquillamente a loro – e non a samurai e tradizioni – il simbolo del paese, la sfera rossa rappresentante il sole che Abe solleva a Rio dopo aver percorso mezzo mondo nei panni di Super Mario. Nel frattempo noi siamo ancora qui a parlare di rischi e devianze.