Un paio di anni fa, aprendo la versione online del Corriere della Sera, i lettori si sono trovati davanti – in due giornate differenti – due articoli che demonizzavano i videogiochi, additandoli come prodotti in grado di plagiare le menti dei nostri figli. Qualche giorno dopo, sulla Repubblica cartacea, è apparso un articolo che parlava di come Grand Theft Auto V permettesse di sfruttare e uccidere le prostitute. Anche qui il punto fondamentale era l'effetto sui bambini. E ancora, nel giro di qualche giorno, su Rai Uno è andato in onda un segmento all'interno del programma Uno Mattina incentrato sulla violenza nei videogiochi. Ospite speciale, in collegamento telefonico, lo youtuber Favij. Oggi i videogiochi sono stati additati come responsabili della "rovina" del proprio figlio dai genitori del killer 17enne accusato di aver ucciso i coniugi Vincelli su mandato del figlio sedicenne della coppia. Nel mezzo, diversi casi di videogiochi indicati come il grande male che plagia le menti. Tutte queste esternazioni hanno in comune un unico elemento: l'ignoranza. Non generale, ovviamente, ma quella legata al settore videoludico. Nessuno, di tutte le persone interpellate per la creazione di questi contenuti editoriali, ha la minima competenza in ambito videoludico. A parte Favij che, è bene sottolinearlo, non è un critico ma solo il creatore di contenuti su YouTube. Cosa ampiamente dimostrata dal suo breve (e insipido) intervento telefonico.
Quando si parla di videogiochi, soprattutto all'interno della stampa generalista, sembra quasi che i giornalisti si dimentichino dell'elemento fondamentale della nostra professione: la validità degli argomenti. Inutile dire che "i videogiochi istigano alla violenza" se nessuno studio può dimostrare il proprio punto di vista, a maggior ragione se, come in questo caso, diverse ricerche hanno dimostrato l'esatto contrario. La situazione diventa davvero inaccettabile quando a farlo sono i due principali quotidiani nazionali e il primo canale della rete televisiva nazionale. Ancora peggio se, a scrivere un articolo su Repubblica, è Riccardo Luna, l'ex Digital Champion scelto da Renzi, ex direttore di Wired Italia e una delle figure di spicco dell'innovazione digitale del Bel Paese. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Tutti gli articoli sopracitati si focalizzano, senza la benché minima analisi, sul fatto che i videogiochi siano in grado di condizionare i nostri figli facendoli diventare più violenti. Il primo articolo apparso sul Corriere è stato scritto da una madre (pediatra) preoccupata che il figlio potesse giocare a GTA: "Gliel'ho quasi comprato, per fortuna mi hanno fatto ricredere". L'autrice lo definisce "un'arma letale". Ovviamente, al posto di informarsi sul reale impatto del medium videoludico sulla mente, sul PEGI e sul settore in generale, ha fatto una cosa tutta italiana: ha scritto alla sua amica parlamentare. Il secondo articolo, apparso sempre sul corriere, è più subdolo. Guido Olimpio traccia una linea trasversale tra gli attentati di Parigi e GTA: "Per qualche secondo sembra di vivere una scena del videogioco GTA dove il protagonista spara, ammazza, distrugge ed ha una grande mobilità". La teoria è agghiacciante, sembra quasi che l'autore suggerisca il coinvolgimento del gioco nell'addestramento e nel lavaggio del cervello dei due terroristi. E, cosa ancor più grave, sembra sottintendere che la stessa cosa possa accadere a chiunque.
Su La Repubblica Riccardo Luna descrive una scena ormai trita e ritrita: il protagonista fa salire una prostituta in macchina, ci fa sesso, la uccide, le dà fuoco e se ne va. Come se il gioco fosse quello, come se una singola scena di un film potesse rappresentare in toto la pellicola. Questo non è fare informazione, è estrapolare le cose dal loro contesto per farle passare per qualcos'altro. Ed è terribile. Ma di esempi ce ne sono svariati: circa un anno fa, all'interno del programma Uno Mattina, si è parlato nuovamente della violenza nei videogiochi e dei loro effetti sui più piccoli. Senza fonti, senza citare ricerche, senza persone competenti. Il discorso di Favij era farcito di "forse" e "magari", dimostrando una chiara disinformazione sul tema. Eppure, su internet, gli studi sono alla portata di tutti. Oggi l'ennesimo colpo al settore: “Non cerco scusanti, ma se penso a quello che può avergli fatto male dico quella robaccia” dicono i genitori del ragazzo di diciassette anni accusato di aver ucciso i coniugi Salvatore e Nunzia Vincelli nel Ferrarese. I videogiochi, secondo i suoi genitori, avrebbero in qualche modo “rovinato” il ragazzo. Una frase buttata lì, senza dati, senza nulla. Che, come il resto degli esempi, rischia solo di continuare a fare danni in un'industria costantemente sotto attacco.
Partiamo dall'elemento che ha dato il via a tutto: GTA. È un gioco violento? Assolutamente sì. Ma oltre alla violenza c'è altro. Molto altro. Il titolo sviluppato da Rockstar è forse uno degli esempi più alti di narrazione videoludica, un prodotto in grado di mostrare uno spaccato della società contemporanea, della vita americana e delle dipendenze che ormai la caratterizzano. La sua critica feroce è fredda e affilata, ma è geniale. Siamo ormai giunti al quinto capitolo della serie, alla quale molti attribuiscono la colpa di aver reso più violenti i nostri figli. Ma è davvero così? Per capirlo i ricercatori della Stetson University hanno deciso di uscire dal laboratorio e analizzare le due variabili dal punto di vista storico: più videogiochi violenti hanno portato ad un aumento della violenza? Posizionando su un grafico il numero di giochi considerati violenti dall'Entertainment Software Rating Board e gli episodi di violenza giovanile tra il 1996 e il 2011 si ottiene un risultato interessante: l'aumento di violenza è inversamente proporzionale al consumo di videogiochi violenti. All'aumentare dei titoli, quindi, si è assistito ad una diminuzione della violenza. Attenzione, questo non significa che la diminuzione degli episodi violenti sia dovuta all'introduzione di videogiochi come GTA, ma semplicemente che, contrariamente a quanto si cerca di far credere, questi non hanno contribuito all'aumento della violenza. Eppure è dal 1976 che il settore è sotto attacco per gli stessi motivi.
I videogiochi sono stati accusati di aver plagiato le menti dei responsabili del massacro della Columbine High School, della Virginia Tech, dell'isola di Utøya e della Sandy Hook Elementary School. Ma dove sono le prove? Uno studio ha dimostrato che i videogiochi difficili possono renderci più aggressivi (non violenti), ma da qui a prendere un fucile e fare una strage in una scuola il passo non è così breve. Una delle ultime ricerche in questo senso è stata pubblicata sulla rivista Psychology of Popular Media Culture – edita dalla American Psychological Association – e, basandosi su quattro analisi comparative, ha dimostrato che la vendita di videogiochi violenti non porta all'aumento dei crimini ma, proprio come nel caso descritto poco fa, alla loro diminuzione. "Nessuno scienziato ha mai suggerito che i videogiochi violenti siano l'unica causa di comportamenti violenti, così come nessuno scienziato ha mai suggerito che fumare sia l'unica causa del cancro ai polmoni" si legge all'interno del testo della ricerca "Ma i fattori di rischio del fumare sono forti abbastanza da mostrare che quando molte persone hanno smesso di fumare, c'è stata una forte diminuzione dei casi di cancro ai polmoni. Questo pattern non esiste coi videogiochi violenti. Benché sempre più persone siano state esposte a videogiochi violenti, i crimini violenti non sono aumentati. Sembra che gli effetti negativi dei videogiochi sui comportamenti violenti siano o inesistenti o ridimensionati da altri fattori che rendono l'effetto dei videogiochi violenti inesistente. La relazione tra videogiochi e crimini violenti non è mai positiva. È sempre statisticamente negativa".
Quindi qual è il problema in Italia? Il primo, fondamentale, è che probabilmente ci abbiamo preso gusto nell'essere il fanalino di coda quando si parla di digitale. L'altro è che quando si trattano questi argomenti vengono sempre interpellate le persone sbagliate. Forse non saremo il paese migliore sotto questo aspetto, ma in Italia la stampa specializzata c'è ed è composta da persone competenti che si occupano del settore da decenni. Però, quando si deve parlare di videogiochi violenti, lo si fa con uno youtuber. Lo si fa senza citare studi o ricerche. Lo si fa senza averli giocati. Lo si fa mandando una lettera all'amica parlamentare. Lo si fa per giustificare i problemi del figlio che probabilmente hanno ben altra origine. In Italia ci sguazziamo in questa poltiglia: se possiamo discutere sul nulla, lo facciamo fino alla morte. Perché capire il problema senza demonizzarlo a priori è troppo per l'italiano medio.
La soluzione? Sicuramente non la censura. Questo perché ci sarà sempre qualcuno che considererà un videogioco come scomodo, offensivo o politicamente scorretto. Ma allo stesso tempo queste critiche non dovranno mai precludere la possibilità di giocarlo a chi vuole farlo. Sarebbe terribile per la libertà d’espressione. Non vi piace? Non giocatelo. Bisogna poi comprendere l'aspetto dell'età: è assurdo accusare GTA di influenzare negativamente i nostri figli quando sulla copertina del gioco è presente un bollino con un chiaro riferimento ai 18 anni. L'autrice dell'articolo sul Corriere non avrebbe dovuto acquistare il gioco al figlio undicenne non perché questo gli avrebbe rivoltato la mente, ma perché il titolo è chiaramente consigliato ad un pubblico maggiorenne. Stessa cosa per i genitori del 17enne accusato: se giocava a videogiochi per maggiorenni, la colpa di chi è? In Italia il PEGI – l'organo che si occupa della classificazione dei videogiochi in base al contenuto – non è legge come in altre nazioni, quindi non può impedire la vendita di un prodotto ad una persona. Può però consigliare i genitori – quelli responsabili – su cosa regalare e cosa no. La soluzione è incredibilmente semplice: sedersi, parlare e confrontarsi con i propri figli. Capire a cosa stanno giocando, cosa sono quelle immagini che scorrono sullo schermo, perché quel personaggio ha un'arma e perché parla in quel modo. Basterebbe così poco. Eppure sembra più facile mandare una lettera all'amica parlamentare. Il resto è solo comprensione. Capire che un videogioco come GTA ha una potenza narrativa enorme, che il medium videoludico è al pari di quello cinematografico e che le persone dietro allo sviluppo di questi titoli sono creativi appassionati e talentuosi. Capire. E se non si capisce, farselo spiegare. Da persone competenti.