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Opinioni

Mafia III racconta un razzismo ancora attuale

Mafia III non è un videogioco perfetto, ma mette sul tavolo una serie di tematiche sociali che lo rendono rilevante. La rappresentazione del razzismo ai danni della popolazione di colore, nel suo essere subdola e impercettibilmente costante, è tra le più incisive del settore. E tuttora attuale.
A cura di Marco Paretti
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Non è semplice dipingere il razzismo nei videogiochi. Non lo è perché la quasi totalità degli studi di sviluppo è bianca. Non lo è perché l'argomento è talmente complesso da rischiare di sfociare nella banalizzazione. Non lo è perché, nel 2016, siamo ancora al punto in cui alcuni utenti non giocheranno un videogioco perché il suo protagonista è di colore. È stato così con FIFA 17, che nella sua nuova modalità storia propone un'avventura nei panni di un giovane di colore, e sarà così per Mafia III, che per la prima volta prova a fornire una panoramica estremamente lucida e precisa della vita di un afroamericano nell'America della lotta per i diritti civili durante gli anni della morte di Martin Luther King.

Lo fa in una versione immaginaria di New Orleans rinominata New Bordeaux, mettendo in scena una rappresentazione della natura sistemica del razzismo come mai se ne erano viste nel settore videoludico. Il protagonista, Lincoln Clay, è vittima costante di un pregiudizio costante e implicito, mai troppo evidente ma che caratterizza ogni elemento del mondo virtuale di gioco. Dai discorsi discriminatori alla radio alle interazioni con polizia e cittadini, infastiditi e impauriti dal passaggio del protagonista. Non è mai un razzismo plateale, ma piuttosto un piccolo ago che continuamente punzecchia Clay in ogni situazione di gioco, dall'inizio alla fine.

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Nel narrare questa situazione il prologo gioca un ruolo eccezionale, mostrando la storia di Clay in un misto di gameplay, sequenze filmate e video d'epoca, fino al climax delle prime ore di gioco costituito dal monologo del boss di Clay, Sammy Robinson, che gestisce la mafia nera sotto il controllo di quella bianca. Chiaramente italiana. "Ho passato l'intera vita nell'ombra di qualcun altro, ma questo cambia tutto" spiega Robinson indicando i due milioni di dollari appena rubati da Clay. "È libertà, vera libertà. Nessuno ci dirà più cosa fare".

Pochi istanti dopo, la città di New Bordeaux si apre ai giocatori con la sua trama, le missioni e l'inevitabile e costante limite dell'essere un uomo di colore nell'America del 1968. È qui che la rappresentazione della discriminazione diventa un subdolo memento di una situazione forse passata, ma sotto certi aspetti ancora attuale. Alcuni negozi sono riservati ai bianchi ed entrarci porterà i proprietari a chiamare la polizia, le donne nascondono la borsetta per strada quando ci vedono, il Ku Klux Klan si aggira di notte e persino la risposta della polizia è diversa nel caso in cui una chiamata avvenga in un quartiere per bene o in un ghetto. Anche solo osservare per qualche istante un poliziotto per strada può portare ad un arresto.

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Dopo qualche ora di gioco l'ansia di poter restare invischiati in uno scontro a fuoco con la polizia o i sudisti è talmente forte da ritrovarsi a seguire tutti i codici della strada, fermandosi ai semafori e non colpendo le altre macchine per non far scattare i già insospettiti poliziotti. È un elemento che comporta un impatto emotivo incredibile, che pur basandosi su discriminazioni inquadrate temporalmente trova chiaramente riscontro anche nel 2016. Pochi mesi fa un ragazzo di colore aveva pubblicato un video nel quale diceva di non voler più giocare a Pokémon Go perché potenzialmente rischioso per la sua vita: girare continuamente in un quartiere guardando il cellulare, secondo lui, poteva creare agitazione e persino violenza nei suoi confronti.

Allo stesso modo, la risposta delle autorità varia in base ai quartieri e alle nostre vittime: se queste sono di colore, la radio della polizia chiederà alle pattuglie di "indagare, se ne hanno tempo", mentre nel caso di vittime bianche la risposta sarà immediata. È impossibile non pensare ai fatti di cronaca dell'ultimo anno, a Ferguson e alle manifestazioni capeggiate dal movimento Black Lives Matter. Oppure alle sparatorie e alla violenza della polizia americana nei confronti dei cittadini di colore, ampiamente documentata anche in diretta. In questo Mafia III non ha paura di mettere tutto sul tavolo, di usare immagini e parole sporche e di chiamare il protagonista con epiteti forti e denigranti.

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Il problema, però, è che l'opera di Hangar 13 resta in gran parte sviluppata da uomini bianchi. E, seppur di grande valore, viene pilotata da una prospettiva che non è quella di un afroamericano. D'altronde il problema della diversità nel settore tecnologico – così come qualsiasi altra industria – è uno dei temi più caldi degli ultimi anni e va ad impattare proprio proposte di questo tipo. Mafia III riesco comunque a compiere un ottimo lavoro, anche se la narrazione e l'ambientazione si devono scontrare inevitabilmente con l'incarnazione in uno sparatutto, che crea delle situazioni il più delle volte paradossali. Perché, di fatto, Clay deve farsi strada macellando centinaia di mafiosi dall'inizio alla fine del gioco. Forse in maniera meno stereotipata rispetto ai primi due episodi di Scorsese memoria, ma che comunque generano un personaggio al limite della sociopatia, che da un lato lotta contro il razzismo e dall'altro falcia ogni testimone sulla sua strada. Mafia III non è perfetto, ma mette sul tavolo una serie di tematiche sociali che lo rendono rilevante. Facendolo con una lucidità che dovrebbe ispirare tutti gli studi di sviluppo.

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Giornalista dal 2002 specializzato in nuove tecnologie, intrattenimento digitale e social media, con esperienze nella cronaca, nella produzione cinematografica e nella conduzione radiofonica. Caposervizio Innovazione di Fanpage.it.
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